Organo Ufficiale dell'Accademia Internazionale Epulae
Direttore Responsabile
Angelo Concas
20/07/2009
“La cucina di una società è il linguaggio nella quale essa traduce inconsciamente la sua struttura” ha scritto Claude Levi-Strauss. Viene quasi da pensare che quando espresse questo concetto il grande antropologo francese si trovasse a Carloforte. Perché è difficile trovare una comunità, come quella carlofortina, la cui originale cucina sia il riflesso fedele delle vicende storiche, delle esperienze lavorative e dello sviluppo socio-economico che l’hanno caratterizzata. Ed è in questo, e per questo contesto che il cascà tabarchino è diventato ed è la pietanza principe e simbolo insieme della gastronomia isolana.
Innanzitutto perché il cascà è un piatto storico che ricorda il trascorso degli antenati dei carlofortini: una piccola compagine di intrepidi liguri che intorno al 1540 si erano trasferiti a Tabarca, un isolotto sulle coste tunisine, per praticarvi la pesca del corallo. Durante la loro permanenza nella terra africana, durata quasi due secoli, assimilarono l’arte di cucinare il kuskus, e quando si trasferirono su San Pietro per fondare Carloforte (1738) la tramandarono alle generazioni future.
In secondo luogo perché la preparazione del cascà richiede delle gestualità, quasi dei rituali, che sono state trasmesse da madri in figlie. Come l’azione di arundiò a sémmua ossia lavorare la semola, con la mano che compie movimenti circolari tenendo le dita leggermente aperte e il palmo sollevato, per non farla raggrumare e inumidendola di tanto in tanto con l’acqua e intingendola poi con olio prima di cuocerla a vapore.
C’è ancora da aggiungere che il cascà tabarchino, conformemente alle sue origini maghrebine, è una vivanda conviviale e festosa ed è questo uno dei motivi per il quale si prepara in quantità abbondanti: la sua consumazione spesso è estesa a tutti i membri della famiglia “allargata” (nonni, zii, cugini ecc).
Infine, ma non ultimo, a fare del cascà il piatto sovrano, o quanto meno il primus inter pares, della ricca e peculiare cucina carlofortina è il suo gusto squisito che ne fa un’autentica delizia del palato.
La ricetta
Ma come si prepara il cascà? Prima di rispondere è necessaria una premessa. Come tutte le ricette anche quella del cascà per la molteplicità dei suoi ingredienti si presta facilmente a diverse varianti spesso apportate quasi sul momento da chi lo cucina. Sono tuttavia delle piccole differenze che non sovvertono nella sostanza la ricetta originale. Semmai le uniche diversità sono dovute alle verdure usate come condimento che variano a seconda della stagione che portano quindi ad una distinzione tra cascà invernale e cascà primaverile/estivo (distinzione che oggidì, trovandosi in ogni stagione gli ortaggi, non è più netta come una volta) ed all’uso o meno della carne nel suo condimento. In ogni caso la preparazione della semola, che è l’azione più importante (ed anche la meno facile) nella fattura della pietanza, è sempre la stessa.
La semola deve essere infatti inumidita con acqua e girata ripetutamente, aggiungendovi sale, con le dita della mano che compie movimenti rotatori sempre nello stesso senso per evitare che si raggrumi. Quando la semola è stata ben inumidita la si travasa in un recipiente nel quale continuando la manovra rotatoria della mano vi si aggiunge lentamente olio. Vi si cosparge intanto un poco di saporita per aromatizzarla. Conclusa anche questa operazione la semola viene sistemata nella cuscussiera, la quale viene posata su una pentola contenente acqua bollente, un cavolfiore e un cavolo cappuccio. Il contatto tra i due recipienti viene sigillato, per evitare la dispersione di vapore, con una pasta ottenuta dall’impasto di acqua e farina (il metodo è molto antico: sicuramente era già in uso nel XIII secolo). Dopo circa due ore di “fuoco” la semola, che è stata mescolata di tanto in tanto, è pronta per ricevere i condimenti, preparati precedentemente a parte. Se si tratta di cascà invernale il condimento è costituito da ceci messi preventivamente in ammollo e lessati con spicchi d’aglio. A parte vengono rosolate con cipolle più o meno abbondanti, listarelle di cavolo cappuccio e carote tagliate a dadini e pezzi di carne (se con la carne) solitamente di maiale, che alcuni mischiano nella semola durante la cottura a vapore mentre altri sistemano la carne a bollire nella pentola che accoglie la cuscussiera. La semola viene quindi condita con le verdure ancora calde e nuovamente profumata con la saporita. Un accorgimento è quello di condire a più riprese per dar modo alla semola di assimilare meglio i diversi sapori. Prima di servire in tavola lasciare riposare il tutto per un paio d’ore.
Nel cascà primaverile/estivo a parte i ceci lessati, sempre presenti, cambiano ovviamente le verdure. Innanzitutto rosolare con cipolla aglio e prezzemolo piselli, fave fresche e carciofi, a parte rosolare zucchine con cipolle e bollire un cavolfiore in acqua con cipolle indorate e sempre a parte tagliare le melanzane a dadini e friggerle. Quindi procedere lentamente al condimento della semola.
Notizie e curiosità
Una leggenda fa risalire la nascita del cuscus addirittura al Re Salomone che se ne sarebbe nutrito per compensare e lenire le pene d’amore che pativa per la regina di Saba.
Il cuscus è ormai accertato è un piatto di origine berbera, antica popolazione nomade di piccoli agricoltori e allevatori di bestiame del Nord-Africa.
Il nome cuscus deriva dal vocabolo di lingua berbera kuskus che significa “impasto di farina e acqua” il termine poi con l’espansione araba nel Nord-Africa è diventato kouskous. In tempi relativamente recenti il vocabolo si è diffuso nelle lingue occidentali diventando couscous in francese e cuscus appunto in italiano.
In tabarchino con il termine cascà si indica sia la tipica e caratteristica pietanza, sia la cuscussiera, il recipiente in terracotta forellato attraverso il quale la semola viene cotta a vapore. La coincidenza dei due termini deriva per assonanza dal fatto che in uno dei tanti dialetti berberi la prelibata pietanza viene detta käskä mentre la sorta di pentola utilizzata per la cottura è chiamata kaskais.
La più antica ricetta scritta del cuscus, che è praticamente simile al cascà tabarchino, risale al XIII secolo. La si trova in un libro del noto gastronomo arabo-andaluso Ibn Razin al-Tujibi (1230 circa – 1293) dal titolo “La tavola eccellente composta dei migliori alimenti e delle migliori pietanze”.
Il cascà è un piatto da festa e conviviale. A Carloforte nei tempi passati era consuetudine cucinarlo per il 4 novembre festa di San Carlo, Patrono della città. Oggi per cuocere il cascà non si attende più le grandi festività. Ma ogni volta che la tavola è imbandita con questa squisita vivanda è una festa per i commensali.
Il cascà oltre che a tavola è entrato anche nel linguaggio dei carlofortini. Ti vegnisci u giurnu du cascà (Possa tu venire il giorno che si mangia il cuscus) è un modo di dire scherzoso col quale si intima a qualcuno di diradare le sue visite importune o fastidiose. A volte per dire di qualcuno che si è accorto in ritardo di un qualcosa o per troppa distrazione o per poca acutezza si usa la frase Dóppu sette tundi de cascà u l’ha ditu cu l’éa fattu (dopo aver mangiato sette piatti di cuscus si è accorto che era insipido). Infine di una persona che ha una testa molto grossa e rotonda si dice u l’ha a tésta cumme n cascà (ha la testa grossa come la cuscussiera).
Non solo cascà
Se il cascà è il sovrano della cucina carlofortina, è egli un re attorniato da nobilissime pietanze altrettanto peculiari, altrettanto gustose. Sicuramente alla sua corte un posto da gran dignitario lo occupa il tonno, dai carlofortini confezionato con procedimenti semplici e antichi e cucinato in mille modi e con mille salse. Ma vantano uguale blasone tanti cibi e contorni originali, spesso esclusivi della cucina isolana. Qui di seguito riportiamo solo un piccolo campionario (elencarli tutti non basterebbe un trattato) di queste saporite singolarità che contribuiscono a fare di Carloforte un autentico paradiso per i buongustai.
Bóbba - È una tradizionale minestra tabarchina costituita da fave secche. Messe in ammollo le fave secche sgusciate si mettono poi a cuocere a fuoco lento. Durante la cottura si aggiunge un pezzo di patata o di cavolfiore e alcuni spicchi d’aglio pressato, il tutto condito con olio d’oliva. Si ottiene una minestra cremosa ma non molto densa dal gusto caratteristico e inimitabile.
Canestréllu – È il dolce per antonomasia dei carolini. È costituito da un impasto di farina, strutto, zucchero, tuorlo d’uova, lievito e vanilina. I canestrélli hanno una forma di ciambella e si cuociono al forno. Al termine della cottura si spalmano di una glassa (cappa) a base di albume d’uovo montato.
Fainò –Così in tabarchino è chiamata la farinata, una pietanza tipicamente genovese, retaggio dell’antica origine, molto consumata a Carloforte. È costituita da farina di ceci ben amalgamata con acqua olio e sale fine. L’impasto si dispone in teglie, preferibilmente rotonde, e si inforna per una quindicina di minuti.
Galétta – Può essere considerata il pane dei marinai. La panificazione deriva dall’antica tradizione della gente di mare ligure. Le galétte si preparano con farina, acqua, sale, lievito e strutto. Sono cotte due volte per meglio biscottarle e si confezionano a forma rotonda, pressappoco grandi quanto un cd e non più spesse di 1 cm. Si possono mantenere anche per un paio di mesi, spesso prima di consumarle si mettono in ammollo.
Facussa – È questo un cetriolo sottile, allungato (30/40 cm) e incurvato e ritorto tipico del Maghreb i cui semi furono dai coloni tabarchini portati a Carloforte e trapiantati negli orti isolani. La facussa, dall’arabo fakûs, ha un sapore fresco e delicato, è un comune ingrediente delle insalate estive soprattutto a base di tonno ma l’ortaggio viene mangiato anche da solo come un frutto.
Nicolo Capriata