Organo Ufficiale dell'Accademia Internazionale Epulae
Direttore Responsabile
Angelo Concas
09/05/2007
Quelle arance le ho ancora impresse negli occhi. Erano coltivate nella famosa Conca d’Oro: frutti che rompevano la continuità di quell’immenso tappeto verde che assediava Palermo. Di tanto in tanto, si scorgevano delle casette coloniche tinteggiate di bianco con gli esterni in azzurro vivo che servivano a frantumare la consueta monotonia del colore. Le montagne la coronavano con mistico rispetto, riversando in essa copiose fiumare d’acqua (delizia per la produzione agrumaria)0. Dalla mia camerata del seminario arcivescovile di Monreale, osservavo quei meravigliosi frutti luccicare al sole. In quelle giornate di tardo autunno, quando tutta la campagna perdeva vigoria, le arance prepotentemente sorridevano e compiacevano la vista. Erano come delle grosse lampade, dorate, abbaglianti, che si evidenziavano tra l’intenso verde delle foglie degli alberi. Bastava un leggero alito di vento per farle dondolare. In quelle giornate di novembre, quando fa buio presto, scendevamo attraverso le “assolicchiate” mulattiere che da Monreale portavano a Borgo Molara o ad Aquino. Arance, limoni, mandarini; e poi ancora, mandarini, limoni, arance. Chilometri e chilometri di strade tortuose e silenziose, costeggiate da interminabili giardini di agrumi. Avevo sempre la tentazione di allungare una mano per acciuffare qualche sfacciata arancia che penzolava ad di qua di quell’arrugginito filo spinato. L’occhio attento e il monito del comandamento “non rubare”, ripetuto dal superiore, riuscivano a paralizzare il piccolo braccio desideroso di afferrare quel meraviglioso esperidio. Il solo pensiero di mangiare quelli arancia mi riempiva la bocca di eccessiva salivazione. Provavo dispiacere ad assistere alla raccolta di quei magici “pomi d’oro”. Era come se, a poco a poco, spegnessero quelle meravigliose luci, lentamente, giorno dopo giorno. Io cercavo di tenere a mente la loro ubicazione. Era impossibile controllarne la scomparsa. Poi, quando tornavo dalle feste di Natale, ne erano rimaste poche sugli alberi. Ma la notte i miei occhi erano pieni di quei vivacissimi colori. Con la primavera si rivestivano di un bianco delicato. In pochi giorni la Conca si riempiva di un intenso profumo di zagara che esplodeva dentro ai polmoni. Perfino la notte, con tutte le finestre sbarrate, riuscivi a percepire quell’estenuante profumo. Allora era davvero arrivata un’altra stagione. A sera bastava un alito di vento per trasportare sulla collina normanna l’odore di terra innaffiata. Altro odore, altro profumo, altro umore, altra speranza. Un’altra storia. Giuseppe e Mario Liberto