Saperi e sapori

Carloforte, la città del tonno

di Mario Liberto

27/07/2010

La città di Carloforte, con la sua importante manifestazione internazionale “Il Girotonno”, giunta nel 2010 all'ottava edizione, si conferma la “capitale del maiale del mare”: sua maestà il tonno. Se in altre parti, si “santifica il porco”   Carloforte ha tutte le prerogative per canonizzare il tonno, o se volete il “cavallo del mare”. “Il Girotonno”, a seconda degli anni può svolgersi nella settimana a cavallo tra fine maggio e i primi di giugno o nella prima decade di giugno. In quei giorni, l’isola di San Pietro si allestisce a festa, e accoglie migliaia e migliaia di visitatori desiderosi di conoscere questo meraviglioso angolo del turismo internazionale. Carloforte si apre sul mare con una conformazione concava, due enormi braccia aperte, un modo curioso per stringere a se l’ospite che arriva; insieme alla cordialità e all’ospitalità della gente è il miglior modo per far sentire il turista a casa propria. La cittadina è il solo centro abitato dell’isola di San Pietro, distante appena 10 km dalla costa sarda, e costituisce, insieme alla vicina Isola di Sant'Antioco, l'Arcipelago del Sulcis-Iglesiente. 
 

Carloforte, koinè della cucina mediterranea

Raccontare la storia di un popolo attraverso la gastronomia è sempre il modo più curioso. Si riesce a capire meglio le gesta e le motivazioni che hanno determinato l’uso e le origini dei vari componenti alimentari. Le varie pietanze riescono a raccontare la stratificazione storica delle varie popolazioni che si sono succedute. Piatti senza alternativa, obbligati, condannati ad esistere. San Pietro ha questa prerogativa, tra l’altro, le fonti di inquinamento sono state limitate e per certi versi la cucina è rimasta preservata per diversi secoli.
La stratificazione culinaria è rappresentata da una sovrapposizione di cultura alimentare ligure-africano-sarda sintesi di una koinè gastronomica mediterranea.
Una cucina condizionata da prodotti che l’isola stessa poteva produrre. La mancanza di torrenti o corsi fluviali, nei secoli, ha spinto la popolazione ad una parsimoniosa economia di acqua utilizzando cisterne e pozzi che sicuramente avranno condizionato l’agricoltura rappresentata da piccoli orti a conduzione esclusivamente familiare, giardini che dovevano essere preservati dai venti dominanti e coltivati con tecniche di aridocoltura. Ma in quei fazzoletti di terra la popolazione carlofortina ha saputo trarre i migliori risultati agronomici. Una coltivazione ortiva tipicamente mediterranea: pomodoro, zucchine, melanzane, ecc., piccole parcelle geometricamente perfette capace di garantire la sopravvivenza. Piccoli poderi consentono di coltivare diverse varietà di vite, tra le quali un vitigno autoctono il Ramungiò. Naturalmente, non mancano il fico, il ficodindia, pere, melograni, ecc. Predomina sia allo stato selvaggio che coltivato l’immancabile mediterraneo ulivo, emblema anche dell’isola di S. Pietro.
Il piatto che meraviglia è il noto cous cous, chiamato a Carloforte cascà, da notare che in tabarchino, con il termine cascà si indica sia la caratteristica pietanza, sia la cuscussiera o cuscussera, il recipiente in terracotta forellato che si utilizza per cuocere la semola a vapore. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare il cascà viene preparato con le verdure degli orti, come nell’isola di Pantelleria. Nelle terre magrebine il piatto veniva arricchito di carne di montone. Nel trapanese il cus cus viene preparato con il pesce e spesso con una spolverata di mandorle tostate, che si discosta con la tradizione africana. Pertanto, è da dedurre che i tabarchini non hanno mai avuto forti legami con l’entroterra africano.
Così come la lingua, la cucina tabarchina ha mantenuto un legame con la loro terra di origine: la Liguria. Tra tutti primeggia il pesto che contraddistingue la cucina carlofortina. Il legame è mantenuto anche dalle focacce, dalla panissa e dalla fainè (farinata), piatti tradizionali la cui preparazione resiste esclusivamente nelle famiglie.
Come nella buona tradizione mediterranea la pasta, fatta artigianalmente è sinonimo di goduria. Pasta essiccata di cui il popolo musulmano ha lasciato la sua forte connotazione gastronomica. Le forme, un po’ obbligate, o più fantasiose sono rappresentate dai curzetti, dai maccaruin, dai raio, dai cassulli e dalle trofiette. Fogge di pasta che si accostano con tutti i vari condimenti che l’isola poteva offrire: salsa di pomodori, nero di seppia o il “nazionalissimo” pesto.
La caponata tabarchina, cappunadda, è analoga a quella delle isole Eolie (Sicilia). La qualcosa fa pensare che il contatto avuto con qualche rais abbia lasciato sull’isola un usanza della caponata eoliana. Le differenze riguardano la sostituzione delle gallette con il pane raffermo abbrustolito e l’assenza del tonno essiccato. Il mare a volte unisce anche i gusti.
A bobba richiama il prestigioso maccu siciliano, ma anche mediterraneo. Qualunque sia il modo di chiamarlo, sempre fave secche sono. È una classica minestra di fave essiccate fatta cucinare lentamente condita con aglio, qualche costa di sedano, carote finemente tritati il tutto condito con olio extravergine di oliva, da servire con pasta oppure con fettine di pane tostato. Piatto tanto caro al prode Ercole, pare che la sua forza fosse attribuita a questa leguminosa.
Non ci dimentichiamo che S. Pietro è un’isola. Pertanto i pesci sono la parte più consistente della cucina carlofortina. Naturalmente primeggia il pesce azzurro che inconsapevolmente si fregia dell’omega 3, una categoria di acidi grassi essenziali indispensabili per il corretto funzionamento dell'organismo, suggeriti dalla medicina moderna. Pesce fresco e salutare fatto di grigliate di orate, dentici, sarde, triglie e pesce spada.
E’ ancora possibile gustare un vecchissimo piatto locale:purpu accummudau cue patatte (polpo in guazzetto con patate). Una ricetta molto semplice, una delle più antiche della cucina tabarchina. Il polpo tagliato a pezzetti viene fatto rosolare con l’aglio. Quando assume un bel colore rosso si aggiunge un mezzo bicchiere di vino e si fa evaporare. Il polpo viene ricoperto di acqua, salsa di pomodoro a piacere, con l’aggiunta di patate a tocchetti. A cottura completata si condisce con un po’ d’olio e prezzemolo. Questa scelta culinaria, in altre parti del Mediterraneo, viene utilizzata per il baccalà o lo stoccafisso, per il tonno e per il pesce spada, insomma per i pesci grossi e grassi.
Caratteristico è anche la cassolla (zuppa di pesce) tanto amato dai popoli mediterranei. Per secoli è servito a riempire la pancia dei poveri pescatori e ad utilizzare il pane raffermo inzuppato nell’accattivante brodetto. Veniva preparato nelle giornate di “mare grosso” , quando le barche non potevano prendere il largo, ragione per cui, si utilizzava il pesce pescato nei bassi fondali.
Carloforte è legata a doppio filo con il tonno. Di questo splendido animale, spesso associato al maiale, non si spreca nulla. Si deve ad Aristotele la spiegazione delle misteriose migrazioni dei branchi di tonno. Il sistema di pesca, con le caratteristiche tonnare, era conosciuta ai tempi degli Egizi e dei Fenici. Molte monete del tempo avevano le effigi del tonno come simbolo di prosperità. Sotto l’aspetto gastronomico, Archestrato informa che, già nel IV secolo a.C., il tonno veniva conservato sotto sale. Marziale, invece, ha dedicato al tonno un epigramma nel quale, in occasione dell'invito a cena dell'amico Toranio, dice di «accostare tonno a sottili fettine di uova sode».
Il tonno arriva dall'Atlantico nel Mediterraneo seguendo l'istinto sessuale; alcuni tornano indietro dopo l'accoppiamento, altri seguono alcune correnti. I mari italiani sono ricchi di acciughe, sardine, sgombri, calamari e totani, pesci ideali per il nutrimento del tonno. Le sue carni, ricche di lipidi, vengono utilizzate, quasi esclusivamente, nell'industria conserviera.
Il tonno di San Pietro, si è sempre contraddistinto, sia sotto il profilo sensoriale, sia per l'economia di Carloforte, infatti esso è stato da sempre determinante, creando lavoro stagionale a numerose famiglie e soprattutto opportunità di commercializzazione.
Ma il tonno non è solo conserva. A Carloforte, i modi di cottura del “maiale del mare” sono molteplici. Il classico piatto è alla brace con un intingolo di olio, aromi e acqua di mare. Disteso sulla brace riesce a conservare il profumo e il ricordo del mare. Altro piatto sopraffino è la bollita a scabecciu alla carlofortina con un delizioso intingolo di pomodoro e alloro. Altri piatti ottimi e prelibati, ma sostanzialmente forti, sono i gurezi (l'esofago di tonno) e il belu lo stomaco del tonno. Ottimi antipasti o insalate si preparano con il tonno salato, tonnina, e la bottarga (le uova di tonno), il musciame (filetto di tonno), il co de tunnu (cuore). Il figatellu o lattume, si utilizza per preparare gustosissime polpettine e prelibate frittelle. Non lasciate l’isola prima di avere assaggiato il tonno alla carlofortina. Dopo aver fritto una fetta di tonno, si versa in un tegame parte dell’olio extravergine di oliva utilizzato per la frittura ed due spicchi d’aglio schiacciati. Quando diventano leggermente dorati versate un bicchiere di vino bianco e lasciate evaporare. Quindi aggiungete un cucchiaio di salsa di pomodoro e alcune foglie di alloro portando il tutto a cottura lentamente.
Dulcis in fundo. I dolci accompagnano tutti i riti festosi.Fantine, Cavagnetti, Canestrelli e le Lune sono i dolci strettamente legati alle feste di Natale, Pasqua e delle Palme, tutti realizzati con la pasta frolla.
Il cibo da qualunque aspetto lo si affronti è un viaggio. A ritroso a riscoprire i vecchi profumi e sapori o in avanti riscoprendo cibi e cucine di altre culture. Insomma, nell’uno e nell’altro senso è sempre un viaggio. Carloforte può fregiarsi anche di questa prerogativa turistica enogastronomica. 


La storia dei Liguri-Tabarki

L'isola di San Pietro, da sempre, ha rappresentato un punto d’approdo per le popolazioni mediterranee. I fenici la chiamarono "Enosim" o "Inosim", i greci "Hieracon Nesos" mentre i romani "Accipitrum Insula" (Isola degli sparvieri, o dei falchi). San Pietro ha un passato curioso, singolare ed affascinate che ha inizio nel 1542, allorquando, a seguito della nobile famiglia dei Lomellini, casato genovese dedito ai traffici, con a seguito un cospicuo numero di famiglie della cittadina ligure di Pegli e da alcuni paesi limitrofi, si insediarono sulla costa tunisina nell'isolotto di Tabarka nei pressi di Tunisi, trovando occupazione con la pesca del corallo e con il commercio marinaro. Dopo due secoli, nel 1738, la popolazione in preda ad una crisi economica e sociale, lasciarono la terra tabarkina per insediarsi nell’”isola degli sparvieri”, in prossimità della Sardegna, ribattezzandola isola di San Pietro. Il primo nucleo abitativo prese il nome di Carloforte, cioè, Forte di Carlo, riconoscenza e fedeltà al re Carlo Emanuele e San Carlo Borromeo, patrono della cittadina. Il nome dell'isola fu scelto come devozione della popolazione verso San Pietro, il quale, secondo una leggenda, vi approdò nel 46 d.C. Carloforte, fu realizzata su progetto dell'architetto piemontese Augusto de la Vallée. 

O Pàize

O Pàize, ossia il paese, si arrampica su di un leggero pendio la cui sommità è sovrastata da quella che un tempo è stato un fortilizio che custodiva le prime anime che vennero ad abitare questa stupenda isola. La "Porta del Leone", così chiamata per la scultura di una testa del re della foresta inserita nelle mura, richiama la forza del felino associata alla gente carlofortina.
Percorrendo il dedalo di viuzze e “caruggi o carrugi” si scopre l’identità di una comunità che a tutti i costi non vuole assolutamente essere seconda a nessuno. Lo mostrano le loro donne, così austere, belle, intricanti, quelle donne-madri che per secoli hanno dato al mare figli, mariti, fratelli, consapevoli dei pericoli, ma sempre ed instancabilmente pronte a soffrire, resistere e procreare.
Gli uomini al mare e le donne in campagna. Donne sempre in lotta a contendersi con il vento un fazzoletto di terra per approntare il loro l’orto, elemento di sopravvivenza, prerogativa che solo un popolo isolano conosce, apprezza e condivide.
La “isolitudine” li ha forgiati riuscendo perfino a modificare il loro DNA al punto di caratterizzare personalità capaci di affrontare perfino la sorte con una dignità e coraggio tipico degli eroi.
Basti pensare al loro peregrinare in un mare, che nonostante manifesta amicizia, rasenta a volte la pazzia, mietendo vittime, ora unendo, ora dividendo legami, coscienze, culture e religioni.
S. Pietro è un’isola nell’isola, dove le varie culture sono sedimentate: storia, archeologia, lingue, alimentazione, religione, fede, insomma tutto ciò che fa parte del vissuto della koinè mediterranea.
Armonia e disarmonia che si manifesta nel loro dedalo di viuzze così strette da tendere una mano per avere complicità, amore, partecipazione, grovigli che servono per ripararsi dal freddo dal vento, dal caldo, ma anche dai nemici.
Nonostante il sole arriva difficilmente in questo labirinto, il calore della gente riesce inesorabile a riscaldarli ugualmente.
Vicinato fatto di scambi di necessità, di occhiate, di non segreti, di pregiudizi, di paure, speranze, attese. Ogni casa con la propria identità, con il suo caratteristico odore, la sua conformazione, il suo colore.
Attraversando quelle stradine, anche a occhi chiusi, ogni uscio emana un odore, che rende riconoscibile, le case e le famiglie che li abitano.
Via Solferino, con il suo caratteristico arco, come una profonda ferita, taglia quasi a metà l’intero abitato, congiungendo il mare con l’antica roccaforte che sovrastava il paese, di cui resta una curiosa cinta muraria, rifugio per una popolazione preda di pirati di ogni genere. Case, una volta di colore bianco, oggi, per emulare la classe dominante, coloratissime , con gli infissi verdi, volte al maestrale per convogliare quel l’alito di fresco che calma l’arsura del sole che quando si fa rovente non perdona nessuno. In campagna, tetti rossi e inclinati con i prospetti bianchi: le baracche dei contadini.
Il traghetto è l’unico modo per raggiungere Carloforte ed il maestrale e lo scirocco, che possono raggiungere velocità superiori ai 100 km/h, determinando impetuose, ne determinano l’attracco. Traghetti che non si fermano mai, anche di notte. 

I segni della cultura carlofortina

Carloforte non ha mai tranciato il cordone ombelicale con la Liguria. Ogni cosa ne ricorda il legame: architettura, cultura, costumi, usi, alimentazione, ecc.
O Pàize ammalia il visitatore con il suo assetto urbanistico tipico della cultura mediterranea, d’ispirazione araba. Il lungomare è il suo biglietto da visita. Alberi, fiori, coloratissimi palazzi, negozi, monumenti, insomma, il cuore pulsante dell’intera isola. In qualsiasi ora della giornata è pronta a farti compagnia regalandoti momenti piacevoli, attraverso i negozi di prodotti tipici, i caffè, i ristoranti, insieme alla cordialità della gente regalano momenti di serenità. La marina è il luogo di sfogo della popolazione tabarchina di Carloforte. Spazio per incontrarsi, confrontarsi, scontarsi, esibirsi, per ostentare, ecc. In questo sfavillare di colori dei vari palazzi che si alternano, si evidenzia la “casa del proletariato” o Palassio, in stile liberty, ricordo della lega di resistenza dei battellieri contro i padroni delle miniere del Sulcis –Iglesiente. Imponente s’innalza al cielo la statua di re Carlo Emanuele con un braccio spezzato ricordo di un rocambolesco interramento della statua per salvarla dalle ire dei francesi.
I loro monumenti, se pur semplici, raccontano la storia e il peregrinare di questo popolo. Il museo civico raccoglie i manufatti di una popolazione che disperatamente ha dovuto imporsi all’isola. Ogni attrezzo, ogni riferimento racconta una storia, se pur giovane, è sicuramente intensa. Le tre chiese semplici e povere di opere artistiche sono viceversa dei veri monumenti della fede, poiché le loro immagini sacre così miracolose, sono servite a preservare l’intera popolazione dalle difficoltà quotidiane e dall’insidia del mare. 

Il tabarkino, identità di un popolo

La popolazione tabarchina ha guardato sempre al mare. La loro indole è marinara. Ricorda il piccolo “falco della regina”, che è presente e nidificante in una numerosa colonia, accuratamente protetta dalle inaccessibili e scoscese falesie costiere, che ha nella propria indole quella di emigrare così come la popolazione carlofortina che è dispersa in tutto il mondo.
Anziani stanchi con le facce cotte dal sole e intagliate dalla fatica che come ferite mostrano i segni dell’isola, cresciuti a tonno salato, fagioli e cipolle con un pane tanto amaro che trova nelle gallette inzuppate nell’acqua di mare quella soluzione per renderli commestibili. Gente stanca ma non rassegnata con la forza di convivere con l’isola.
Questo popolo ha saputo mantenere inalterata la sua identità attraverso l’uso della lingua. Un dialetto trasmesso dai loro avi liguri, che per il comune passaggio nell'isola tunisina di Tabarka, è detto tabarchino. Un linguaggio che nel tempo si è arricchito di termini di cui la popolazione è venuta a contatto. Nelle pause del lavoro e quando il vento decide di non far lasciare l’isola, allora il popolo tabarchino mostra il lato curioso: fare "casdandra", fare festa. La rappresentazione coreografia danzante del corteggiamento verso l'amata, che, inizialmente timida e ritrosa, accetta poi la corte è uno di questi segni di appartenenza. Segno che si manifesta anche con la cantata di stornelli in tabarchino e i costumi tradizionali d’ispirazione marinara.
Per molti le ricorrenze festose sono occasioni per sentirsi eroi. Un profuso entusiasmo e passione che manifesta nelle varie sagre e ricorrenze che si susseguono nel corso dell’anno.
Non sono meno le feste religiose, un modo per raccomandarsi, ora alla Madonna dello schiavo, in ricordo d’aver ridato la libertà al popolo catturato da una masnada di barbareschi, o per affidare a S. Pietro, attraverso un percorso processionale forse unico, terra-mare, la cura materiale e spirituale delle circa seimila anime tabarkine. 

Un museo a cielo aperto "dell’isola nell’isola"

E se non bastasse il museo a raccontare la storia dell’isola, basta seguire i pochi sentieri che intersecano il territorio per scoprire tutti gli angoli dei 51 km² (sesta isola italiana) per accorgerti che l’intero sistema faunistico, floristico e paesaggistico è un immenso museo a cielo aperto. Trentatré chilometri di costa dell'isola sono prevalentemente rocciosi fortemente modellati dalla salsedine, dalle acque del mare ma anche dal vento, forze della natura che sono riuscite a plasmare le rocce, ma non a piegare la popolazione tabarchina. Grotte, insenature, falesie e piscine naturali con diverse piccole spiagge caratterizzano la costa occidentale dominata dal faro e radiofaro di Capo Sandalo che come un gigante buono avverte i naviganti dell’oscuro pericolo. Rocce scolpite dal vento e della salsedine che come in un paesaggio lunare mostrano le bizzarrie della natura. L’isola è dominata dai monti Guardia dei Mori (211 m s.l.m.) e il Tortoriso (208 m s.l.m.), i quali mostrano delle ferite provocate dalle cave che sono servite, per trovare la pietra per costruire le abitazioni, e per rubare terreno agricolo al vento e alla salsesidine.
L’altopiano che sovrasta il mare, caratterizzato da paesaggi mozzafiato, è ricoperto dalla tipica macchia mediterranea, che il vento ha modellato inesorabilmente. Il Mirto la fa da padrone sull’intera vegetazione accompagnato dal cisto, dal lentisco, del corbezzolo, e dal ginepro. Non manca la palma nana o la palma di San Pietro che per secoli è servita a creare, grazie a mani sapienti, una serie di suppellettili per alleviare e abbellire le case delle donne carlofortine. I terreni più aridi, rocciosi e impervi sono dominati dalla gariga, con specie come il rosmarino selvatico, l'elicriso e l’origano. Dove il vento maestrale non arriva, la natura ha provveduto a far crescere il pino d'aleppo e il leccio.
Gli amici della LIPU, conoscitori dell’isola, riescono ad accompagnarti in escursioni davvero formidabili. La costa orientale, sulla quale si trova anche il porto di Carloforte, è invece bassa, pianeggiante e sabbiosa. Le antiche saline, in corso di recupero, vivono numerose colonie di uccelli acquatici, compresa una nutrita colonia di fenicotteri rosa. Completano il meraviglioso panorama, due piccole isole, appartenenti territorialmente al comune di Carloforte, le isole dei Ratti e la Piana. 

Un turismo ecosostenibile, “identitario e originale”

L’isola di S. Pietro è un’oasi dove il botanico, l’archeologo, lo storico, il naturalista, ecc. può trovare quegli elementi d’interesse, motivo per il quale, vale la pena visitare. Un turismo moderno, ecosostenibile, basato “sull’identità e sull’originalità”.
Un angolo di paradiso dove ancora il cuore pulsa sangue ligure-tabarchino capace di resistere all’onda d’urto della “globalizzazione turistica”, facendo dell’isola un’oasi naturalistica e culturale di grande pregio.
Per questo è necessaria un’ etnia determinata, capace di difendere quotidianamente la propria identità, al punto di contrapporsi caparbiamente a tutti, compresa l’isola dei Sardi, ribattendo ironie e sottointesi che per secoli hanno alimentato e tengono viva la storia e la cultura della popolazione carlofortina.

Mario Liberto

Visitate il sito www.girotonno.org 

  • Il Sindaco di Carloforte Agostino Stefanelli, al microfono durante la premiazione degli chef
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