Organo Ufficiale dell'Accademia Internazionale Epulae
Direttore Responsabile
Angelo Concas
28/07/2010
Quando si parla di rapporto tra birra e territorio il dibattito si anima. Infatti sono in tanti a sostenere che è molto difficile identificare nella birrificazione le peculiarità territoriali, perché tre degli ingredienti base – malto, luppolo, lievito – il più delle volte sono prodotti altrove e spesso, per arrivare al birrificio, devono percorrere chilometri e chilometri, se non addirittura attraversare oceani.
Un ragionamento del genere è sicuramente corretto, ma non perfetto. Ed è tale per quattro motivi. In primo luogo non si tiene conto della componente umana e culturale dei mastri birrai; in seconda battuta non si considera il quarto ingrediente, quello che viene utilizzato in quantità maggiore e che crea la differenza, l’acqua, che solitamente proviene da sorgenti limitrofe ai birrifici; si esclude, poi, ogni eventuale aggiunta di aromi, possibili proprio grazie a eccellenze e specialità locali (oggi i mastri birrai italiani, per esempio, si sbizzarriscono tra chinotti di Savona, pesche di Volpedo, duroni di Vignola) e, soprattutto, chi sostiene l’estraneità della produzione di birra dal suo territorio probabilmente non ha mai sentito parlare, né ha mai bevuto un solo sorso di Lambic.
Il produttore Frank Boon definisce il Lambic come “l’anello mancante tra il vino e la birra”, un prodigio di fermentazione spontanea che prende vita dalla fecondazione del mosto di birra da parte di lieviti selvaggi e batteri, presenti unicamente nell’aria di una zona del Belgio, a sud-ovest di Bruxelles, denominata Pajottenland. “Un’aria fatata”, come sostiene Lorenzo Da Bove (in arte Kuaska), uno dei massimi intenditori di birre a livello internazionale e forse il più fine conoscitore di Lambic.
Il mosto delle birre Lambic viene fatto raffreddare in ampie vasche di rame, poste sotto i solai dei birrifici, e qui lo si lascia tutta una notte, pronto ad accogliere lieviti selvatici e batteri appartenenti a oltre ottanta famiglie, che filtrano dalle fessure sapientemente presenti sul tetto. Dopo questa notte di passione, il mosto viene messo in botti già usate (per il Porto, il Madeira, lo Sherry) e quindi prende il via la prodigiosa fermentazione spontanea. Unica e inimitabile.
Oggi sono solo undici produttori di Lambic e a Bruxelles ne è rimasto uno solo, un punto di riferimento mondiale per quanti guardano alla birra artigianale come a una “nuova vecchia frontiera” del ventunesimo secolo: la Brasserie Cantillon.
Al numero 56 di rue Gheude, nel cuore del quartiere Anderlecht, c’è la porta di accesso alla brasserie. Varcata la soglia, è l’olfatto il primo senso a essere rapito. Intensi odori di cantina, di fermentazione, di fresco, di legno e di agrumi arrivano dritti e imponenti al naso. Ad accogliere i visitatori ci sono Jean e Julie Van Roy che oggi portano avanti il birrificio fondato nel 1900 dal loro bisnonno, Paul Cantillon, e che si impegnano per la difesa e la diffusione della cultura lambic, anche attraverso la loro brasserie, aperta al pubblico come museo vivente.
Prima di lasciare i visitatori liberi di girare per ogni sala della brasserie, accompagnati da una curatissima dispensa di dieci pagine, disponibile in più lingue, Jean Van Roy introduce all’universo lambic. Racconta che l’altra componente fondamentale per la produzione è il tempo: servono almeno tre anni per arrivare a una maturazione di Lambic, necessaria per la loro cuvée e quindi realizzare la Gueuze, lo “champagne di Bruxelles”, rifermentata in bottiglia. Nella sala delle botti campeggia, infatti, una scritta inequivocabile “Le temps ne respecte pas ce qui se fait sans lui”.
Girare per la brasserie, anche a impianto fermo, è emozionante perché non è semplicemente la scoperta del luogo dove nascono le birre (che pure sono tra le più amate da chi scrive), ma si ha la sensazione di un viaggio interdisciplinare, tra birrificazione, storia, antropologia, letteratura, arte.
Al termine della visita Julie Van Roy invita a una degustazione. Si inizia con il Lambic piatto, sempre più raro perché destinato all’assemblaggio per altre birre, come la Gueuze sopra citata, che viene servita per seconda. Seguono poi la Framboise, con l’aggiunta di lamponi, la Kriek che prevede la macerazione di griottes (una varietà di ciliegie), quindi per concludere la Faro, unica nel suo genere perché con l’addizione di zucchero candito. Dal bicchiere emergono aromi e sapori unici, molto marcati e di grande carattere. Sono aromi e sapori che possono spiazzare chi è abituato al gusto delle birre industriali oppure poco avvezzo ad approcciare quelle che, forse con troppa enfasi, sono definite “birre estreme”. E’, dunque, necessario lasciare alle spalle i pregiudizi per poter apprezzare gli inusuali aromi e sapori spiccatamente tendenti all’acido in un insieme di limone, aceto, metallo e – come sottolinea il già citato Kuaska – di ferrovia e di vecchie carte da gioco.
Per degustare i prodotti Cantillon, e in generale dell’universo lambic, serve un’educazione del palato, una sorta di allenamento e, soprattutto, non si deve avere fretta. Ecco che il fattore tempo ritorna ancora una volta! Così come il mastro birraio ha impiegato tempo per regalarci delle birre così straordinarie, allo stesso modo nella degustazione è necessario prendersi tutto il tempo necessario.
Uscendo dalla brasserie Cantillon, si ha la sensazione di aver fatto un viaggio nella storia e nello spazio. Fieri, con indosso la maglietta appena acquistata, ci si specchia sui vetri del decorato furgoncino della brasserie: il logo del birrificio, l’omino che tiene in mano un boccale e resta in bilico sulla punta del piede, è posto proprio lì, sopra al cuore. Ci si volta di spalle e si sorride nel leggere la scritta che campeggia sulla schiena. E’ proprio vero: “Cantillon c’est bon!”.
Testo e foto di Maria Silvia Olivieri
Per informazioni aggiuntive sulla Brasserie Cantillon www.cantillon.be