Chiacchierando di gusto

I dessert dell'Accademia Internazionale Epulae: una innovazione che valorizza la tradizione

di Giuseppe Oddo

30/09/2010

Vuole la tradizione, supportata da più di un riscontro oggettivo, che il cuscusu (come lo chiamavano i nostri vecchi, ed è ricordato tuttora dal Dizionario enciclopedico Treccani) sia stato inventato dagli Arabi intorno al XV secolo. Ma, nome e piccole varianti a parte, non c’è dubbio che le origini di questo prodotto tipico della creatività mediterranea affondino le radici nella protostoria, al pari della cerealicoltura, che tanta parte ha avuto nella lotta per la sopravvivenza dell’uomo in tutta l’area del Mare Nostrum. Inteso come «pasta di semola ridotta in minutissimi chicchi», agli albori delle civiltà mediterranee il cuscusu ha avuto ovunque un ruolo davvero provvidenziale, quasi come la manna piovuta nel deserto ai figli d’Israele, guidati da Mosè. Cuscus e manna, d’altro canto, dovevano rassomigliarsi molto anche per l’aspetto esteriore, essendo quest’ultima, stando alle fonti bibliche (Es 16, 14): «una cosa minuta e granulosa, minuta com’è la brina della terra», o se si preferisce (ivi, 16,31), «simile al seme di coriandolo e bianca».

Non per questo si può convenire con Giuseppe Coria che Mosè e Giacobbe portarono il cuscus nelle loro peregrinazioni «diffondendolo in tutta l’Africa settentrionale». No, perché l’umile pietanza, comunque denominata, attesta sempre una fase importante del passaggio dalla preistoria alla storia, dal nomadismo all’insediamento stanziale. Racconta lo stadio primordiale della civiltà del pane, quando (non essendo stato ancora inventato il lievito) l’uomo si nutriva di cereali abbrustoliti, polente e farinate. Citando fonti classiche (Marziale, XIII, 8), Giuseppe Sassatelli ci informa dell’esistenza di «una specie di polenta (puls) a base di farro che veniva considerata tipica di Chiusi e che costituì per molto tempo il nutrimento principale di etruschi e italici». Aggiunge che altre fonti (Giovenale, XI, 109) accennano all’antico uso romano «di mangiare farinate e polente (farrata) in piatti etruschi». Non è, dunque, per caso se il farro tuttora si produce in Toscana.

Ad ogni buon conto, un illustre studioso marocchino d’origine berbera, docente all’Università di Madrid, sostiene che il cuscus sia stato diffuso nella Mauritania dai conquistatori romani. Ma sappiamo per certo (cfr. Catone, De agricoltura, 85) che almeno nella fase terminale dell’era repubblicana i cittadini romani conoscevano la ricetta di un piatto unico cartaginese ribattezzato nell’Urbe puls punica: «Mettete nell’acqua una libbra di farina e fatela stemperare bene, versatela in un mastello pulito, aggiungete tre libbre di formaggio fresco, mezza libbra di miele e un uovo; mescolate il tutto e fate cuocere in una pentola nuova». Non è forse questa una prova che ai primordi della vicenda del cuscus se ne conosceva anche una versione dolce?

Ma c’è di più: il Vocabolario siciliano-italiano illustrato di Antonino Traina recita che cuscusu «è voce araba, e i Tunisini tuttora l’usano». E non senza lasciare intendere che nel 1868 in Sicilia era più conosciuto il cuscusu asciuttu, «dolce fatto di semolino, zuccheri, aromi, ed altro, cotto col brodo, ma col fumo dell’acqua». Ora, che il cuscus, variamente condito, nel secondo Ottocento esistesse almeno nel Trapanese è attestato autorevolmente da Pitrè. Ma non bisogna dimenticare che i dessert inventati da Accursio Sabella, Giuseppe Barbera, Vito Musmeci dell'Accademia Internazionale Epulae hanno come ascendenti la puls punica e il cuscusu asciuttu immortalato dal Traina. E – perché no? – rimandano alla manna di biblica memoria, che «aveva il sapore di una focaccia col miele». Anche per questo l’augurio è che, con l’aiuto di Dio, le nuove squisitezze possono riscuotere nel tempo lo stesso successo del cuscus di pistacchi nato nella Badia Grande del Monastero dello Spirito Santo delle suore dell’Ordine Circestense, ad Agrigento.

  • Angelo Concas e Giuseppe Oddo