Organo Ufficiale dell'Accademia Internazionale Epulae
Direttore Responsabile
Angelo Concas
22/03/2011
I formaggi della Sardegna sono pregiati, la pastorizia vanta una tradizione millenaria così come l’arte di ricavare prodotti dal latte; il patrimonio ovino della Sardegna rappresenta oltre il 40% di quello nazionale; l’allevamento interessa oltre 18.000 aziende zootecniche, molti caseifici aziendali e una sessantina di caseifici industriali.
L’allevamento brado o semibrado, tipico delle zone montuose e collinari sarde è l’ideale per un’alta produttività e la buona qualità del latte. La flora dei pascoli è costituita da specie appartenenti alle graminacee, alle leguminose e alla composite.
La pecora di razza Sarda ha capacità d’adattamento molto elevate, e una buona produzione di latte; rinomato è l’agnello da latte sardo, prodotto Dop (a denominazione d’origine protetta); le razze bovine attualmente allevate sono soprattutto la Frisona e la Bruna; sino a metà dell’Ottocento prevaleva la razza Sarda che verso fine secolo venne mescolata, a scopo di miglioramento, con la Modicana, proveniente dalla Sicilia, per migliorarne l’attitudine al lavoro, e con la Bruna, proveniente dalla Svizzera, per rendere migliori carne e latte. Sono nate così la Sardo-Modicana e la Sardo-Bruna, le cui carni sono rinomate e presidio Slow Food.
La capra tipica dell’Isola è la Sarda, mescolata da tempo con altre razze la cui più importante è la maltese.
Le fasi di lavorazione sono le classiche, comuni a tutti i formaggi; cagliata, rottura della cagliata, formatura negli stampi o filatura, pressatura per facilitare la perdita del siero, che garantisce una maggiore conservazione, salatura. Tradizionalmente si usava il caglio d’abomaso di capretto o agnello, al giorno d’oggi si utilizzano cagli chimici. La salatura più antica è quella a secco, che viene ancora oggi applicata al Pecorino Romano Dop. La salatura in salamoia pare essere di più facile gestione: il formaggio merca (latino melca) ad esempio permane in salamoia per tutto il tempo della stagionatura.
Dopo la salatura il formaggio può venire affumicato con l’esposizione al fumo mediante combustione di legna. La stagionatura rappresenta il periodo più lungo del processo di caseificazione, può rappresentare sino al 99% del tempo totale.
Sappiamo dalle fonti storiche medievali che il formaggio sardo, spesso citato come cacio sardesco, era rinomato.
L’esportazione del formaggio costituiva una voce importante dell’economia isolana. Numerosi documenti medievali e moderni attestano la conoscenza e l’uso del cacio sardesco anche nelle corti nobiliari e nell’alta borghesia.
Non sappiamo con precisione quali tipi di formaggio fossero prodotti ma possiamo immaginare si trattasse di stagionati, adatti ad essere conservati per lunghi periodi e a poter affrontare viaggi per mare, dalla Sardegna al continente.
Sicuramente venivano prodotti anche formaggi caprini e ovini freschi, ma erano consumati in loco, cosi come la ricotta, che da sempre è stata considerata, a causa delle sue scarse qualità nutritive, un cibo da poveri.
In Età moderna le tipologie di formaggio si moltiplicano. Andrea Manca dell’Arca dà informazioni sui formaggi della seconda metà del Settecento: la fabbricazione avveniva tra febbraio e giugno; oltre ai formaggi freschi senza sale e alla gioncate (ossia formaggi freschi racchiusi in canestri di giunco o felce) le tipologie erano: formaggi bianchi, rossi fini, affumicati, fresa, spiatadu e ricotta; erano pecorini puri mescolati con latte vaccino o caprino. Egli rileva che si usa solo latte sale e il caglio (detto nel testo giaguo) senza altre droghe.
Dopo aver posto per 7-8 giorni i formaggi in salamoia i cosiddetti bianchi si conservano in cantina o in un vaso ampio bagnati di salamoia, i rossi, ossia a pasta gialla vengono appesi sopra le canne al tetto delle cucine e affumicati quotidianamente con rami verdi di lentisco (sa chessa) e successivamente conservati al fresco con grani di sale. Il cosiddetto formaggio rosso si fabbricava col latte intero senza raccogliere il fiore per altri usi. Non occorreva zafferano né altro espediente per renderlo color oro, l’ottimo latte e la sapienza dei casari lo rendeva tale.
A fine giugno si fabbricano la fresa e lo spianadu: la fresa, dice Manca dell’Arca, si fa mettendo il latte coagulato, tolto il siero, in un panno di lino, si taglia a fette di 2-3 dita d’altezza e dopo averlo messo in salamoia per alcuni giorni si asciuga poi al sole; per preparare lo spianadu si manipola il latte coagulato, tolto il siero, e riscaldato in modo che sia malleabile, nelle forme che si desidera... i pastori di vacche lo lavorano in varie forme e figure, e Manca dell’Arca ci racconta che si chiama semplicemente casu achinu; dopo di che va messo poco tempo in salamoia e asciugato all’ombra ed è pronto.
Questi manufatti oggi a Dorgali si chiamano jocos de casu e c’è ancora chi li fa, con maestria e passione. Hanno forme di animali, capre, cavallini, maialini, o di trecce complessamente legate.
Fabbricati i formaggi col siero avanzato si fabbricava la ricotta; in parte viene messa in salamoia e ad affumicare; era usanza mescolare un po’ di latte col siero per avere una ricotta migliore.
Già Manca dell’Arca sottolineava l’eccellenza della produzione sarda, la sostanziale autosufficienza dell’Isola in merito al consumo di prodotti caseari e gli ottimi ricavi delle esportazioni.
Nell’Ottocento nel Dizionario geografico storico economico statistico di Goffredo Casalis e Vittorio Angius viene citata spesso la produzione casearia locale, e in particolare lu miciuratu, lo yogurt gallurese. Tutti i viaggiatori e studiosi che attraversano l’Isola tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento si soffermano sul formaggio nei loro resoconti.
Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento il pecorino sardo e il pecorino romano diventano quasi una monocoltura in Sardegna; i casari laziali introducono nuove tecniche di lavorazione, modernizzando i pastori, che diventano sempre più stanziali e specializzati, e si danno alla produzione industriale di questi due formaggi per ragioni di mercato.
Tradizionalmente la quasi totalità del latte di pecora, capra e mucca diventava formaggio, il latte era destinato ai bambini (ogni famiglia aveva la capra mannalita che provvedeva ai loro bisogni); un poco veniva consumato nel caffè, spesso d’orzo. Era apprezzato su casu frazigu, frutto del caso. Si produceva quando il formaggio non veniva ben salato e stagionato, quando sa muska de su casu penetrava nella forma e le sue larve (su bremmi de su casu) rendevano l’interno molle e di sapore fortissimo; veniva spalmato sul pane. Dopo essere stato messo al bando la Comunità europea lo ha reso nuovamente legale, anzi si può dire sia uno dei prodotti chiave dell’identità sarda, perché manifesta un gusto diverso dal solito e perché il formaggio marcio è difficilmente reperibile sul mercato, dunque è diventato uno status symbol alimentare.
I jocos de casu sono stati fatti dal sig. Billia Bacchitta, dell’agriturismo Paules di Dorgali (NU).
Bibliografia consultata
A.Guigoni, Tipi di formaggio dal Medioevo ad oggi in Enciclopedia degli Antichi mestieri, Sassari, La Nuova Sardegna editoriale, 2010.
A. Pirisi, T. Cubeddu, I formaggi della Sardegna. Viaggio tra i formaggi, le tradizioni e la cultura casearia dell'isola. Potenza: Caseus, 2004.
Scheda ERSAT casu frazigu:
http://www.sardegnaagricoltura.it/documenti/14_43_20070607153029.pdf