Chiacchierando di gusto

Il Cardamomo, questo sconosciuto…

di Alessandro Riccini

05/03/2007

 Discorso semiserio sui primi approcci all’analisi sensoriale I conoscitori del cardamomo sono nel mondo un’elite della quale mi fregio di far parte. Come ho fatto a farne parte? Nel mio caso la causa scatenante, il “primo motore immobile” stava in quella sensazione di frustrazione che provavo, andando al ristorante, nel bere un buon bicchiere di vino. Capivo che era buon vino, non avevo idea dei motivi; stessa sensazione provavo in enoteca, oppure di fronte allo scaffale del centro commerciale: il prezzo come unico termine di paragone e valutazione, senza che vi sia modo di mettere il medesimo in rapporto con la qualità. La qualità di un vino rimaneva un concetto impalpabile, sfuggente: “se costa tanto, allora sarà buono” è il ragionamento più o meno palese che formulavo alzando il sopracciglio di fronte a controetichette più o meno criptiche, riportanti termini oscuri quali “uvaggio”, “vitigno”, “terroir”…quello che però già intuivo era che le controetichette sono attendibili come una lapide funeraria (tipica la frase “vino da tutto pasto” messa un po’ a casaccio) passano gli anni ma i proverbi rimangono validi: se non si può chiedere all’oste se il vino è buono, parimenti non si può rivolgere domanda similare alla casa vinicola, e più in generale non si può rimanere in balia di prezzi e controetichette, così come provavo un certo disagio interiore quando, al ristorante, mi trovavo costretto a leggere la lista dei vini alla maniera araba, da destra a sinistra: prima il prezzo poi il vino…dunque bando alle ciance! Le passioni sono fatte per essere vissute e non ho potuto fare a meno di iscrivermi ad un corso di primo livello per Accademici Sommelier. Ho così provato di nuovo, dopo anni, quella piccola fitta al cuore nell’iniziare una qualsiasi attività formativa e sociale, dal primo giorno di scuola elementare all’inizio dei corsi universitari…ogni volta la stessa emozione, che si trattasse di prendere in mano per la prima l’astuccio dei colori nuovo di zecca o la “Teoria Generale” di Keynes: ecco, quel misto di curiosità, paura e voglia di conoscere la si avverte prendendo contatto con il libro, schede di degustazione, bicchieri ISO (quelli democratici, che penalizzano in modo uguale tutti i vini ma che, in definitiva, si sfasciano di rado…). Assieme ad essi, ho visto l’inondazione di colori, odori, sapori, burocraticamente definiti “proprietà organolettiche”: cos’è l’unghia verdognola? Uno smalto per signore? E l’empireumatico cosa è? Un dolore delle ossa o un tipo di copertone per auto? E se un vino può avere un sentore vinoso, un fiore può averlo “fioroso”? Sembra incredibile a dirlo, ma ciò che dapprima ho scoperto a lezione, è semplicemente che abbiamo cinque sensi, tra i quali c’è l’olfatto. Nell’era post-indistriale non è riservato all’olfatto il ruolo di primo piano che gli spetterebbe tra i sensi umani: nella vita di tutti i giorni si tende oramai ad utilizzare vista e udito prima di tutti: l’olfatto ormai è relegato soprattutto come avvertimento in situazioni di pericolo: avvertiamo l’odore del gas, quella di benzina, qualche raro profumo ma nulla di più, siamo abituati a servirci in primis della vista e dell’udito e solo dopo, in misura del tutto residuale, degli altri sensi. Per questo approcciare all’analisi sensoriale significa anche recuperare l’olfatto e dargli pari dignità rispetto a vista e udito. E così. come per magia, ho imparato a risvegliare un senso addormentato: ne ho avuto la prova quando mi sono trovato ad una festa in discoteca: sala buia, musica a mille ed io che mi avvio verso il bancone dell’open-bar col mio amico di mille bevute (nonché collega) Federico. Il bancone era preso d’assalto da una moltitudine di avventori, e l’unico barista si muoveva con rapidità e perizia. Dopo aver fatto la solita fila pazzesca Federico, libero da vincoli derivanti dal dover guidare, ha richiesto un cuba-libre, mentre io mi sono limitato a un bicchiere di coca-cola. Il barista armeggiava con bicchieri e bottiglie, sembra avere sei braccia come la dea Calì nel soddisfare vare richieste contemporaneamente alla nostra, ed alla fine ci siamo trovati sul bancone due bicchieri di aspetto assolutamente identico, senza poter dire nulla al barista, fulmineamente fuggito ad esaudire altre richieste. Federico mi ha guardato smarrito: non sapeva più come fare per distinguere i due bicchieri “ora occorre assaggiarli” mi ha detto sorridendo, proprio mentre io, d’istinto, ho avvicinato il naso all’orlo di uno dei due bicchieri, risolvendo il problema con un’operazione che lui non aveva minimamente considerato. L’onnipotenza della vista è uno dei primi miti che ho visto cadere iniziando un corso, ma ben altre vittime illustri sono state colpite dagli strali dei maestri: prime tra tutte il cosiddetto “vino del contadino: non è più buono degli altri, ma sovente è squilibrato, spesso con una componente acida tale da squilibrare tutto in modo irreparabile, spesso avido di profumi che non siano quello vinoso in un vino molto giovane oppure quello dell’alcool, non amalgamato al resto. Altri miti vengono parimenti demoliti: l’abbinamento vino bianco–pesce; vino rosso–carne non sempre è vero, ci sono rilevanti eccezioni: e il caciucco alla livornese col Morellino di Scansano? L’abbacchio scottadito con il Frascati Superiore? Nell’abbinamento tra cibo e vino vigono le stesse regole dell’abbinamento tra persone: l’innamorata che grida al mondo la sua gioia per aver trovato un uomo con un carattere (finalmente) simile al suo può aver effettuato un abbinamento per assonanza (ci prendiamo perché siamo simili!). Ma quante volte capita anche di sentire innamorati intenti nel compiacere le differenze del proprio carattere, sostenendo di completarsi a vicenda e di poter così smussare a vicenda gli aspetti spigolosi del proprio carattere: siamo di fronte quindi ad un abbinamento per contrapposizione, mentre gli abbinamenti per tipicità sono ben riassunti nel detto mogli e buoi dei paesi tuoi. Altra scoperta è stata l’incredibile varietà di sentori che i maestri riconoscono nei vini: un mondo inesplorato mi si è schiuso, un mondo popolato da spezie incredibili e odori impensabili da trovare in un vino: è il caso del cardamomo. All’inizio, sinceramente, pensavo ad uno scherzo del maestro, come l’ ”Antani” dell’indimenticabile Tognazzi in “Amici Miei”: no, non può esistere una spezia con un nome del genere, sembra una marca di volanti per auto sportive o una macchina per la lavorazione della lana. Alla fine in preda alla curiosità, mi sono connesso a internet e ho verificato: la spezia esiste davvero! Sono dunque andato in erboristeria: appena pronunciata la spezia, l’erborista ha iniziato a ridacchiare, domandandomi se per caso non fossi di un allievo del primo livello del corso da sommelier. Evidentemente non sono stato il solo aspirante accademico rapito dal mistero del cardamomo…Da quando ho messo le mani (anzi, la narici) su questa spezia (ma anche sui chiodi di garofano), il mondo è cambiato: il senso dell’olfatto è stato ormai risvegliato e a quel punto è diventato solo un problema di esercizio e di saper resistere all’effetto domino, secondo il quale basta che una voce autorevole senta un determinato tono in un vino per cui si è portati a dire che si, quella nota tostata di caffè in polvere ci si sente anche se noi, magari, ci sentiamo solo pepe macinato…il problema è diventato distinguere un vino giovane da uno che non lo è, capire quali sono le potenzialità de vino un volta domato il tannino…che può essere nobile o meno…ma in tutto questo processo non si sono stato solo: il Gran Maestro Sommelier ha la pazienza di ascoltare tutti, in modo che alla fine riesca più facile quella fase dell’analisi sensoriale che consiste nel processo di riconoscimento di determinate caratteristiche dei vini, mettendosi d’accordo su come posano essere chiamate…e così la passione è sbocciata mentre l’esame giungeva. La mole di studio non è stata così indifferente, sono stato costretto a studiare in ogni condizione: sul treno verso il lavoro, al bagno, in pausa-pranzo, nel fine settimana, faticando non poco sul residuo zuccherino che determina la dolcezza, sul pas dosè e extra brut, che non è un insulto ma una classificazione da mandare giù a memoria, sui termini francesi da assimilare per il processo di produzione degli champagne, termini fuori dalla grazia come “Degorgement”, “Pupitre”, “Bidule” “Liqueur de tirage”…il francese è pregno di termini che noi italiani siamo costretti a tradurre con locuzioni più complesse: mi sono imparato tutto, dalla composizione del mosto alle caratteristiche del marsala vergine riserva…e poi su che cosa sono caduto? sulla fillossera e sulla malvasia istriana! Giuro, era convinto che fosse un fungo, vostro onore, non sapevo fosse un insetto…l’unica cosa certa è che rompe parecchio, non solo ai vitigni ma anche a me, maledizione! Si perché l’esame è stato un vero esame, con tanto di prova scritta con domande per ogni grado di difficoltà (c’è stata la fillossera ma c’è stata anche la Malvasia istriana, sarà un vitigno a bacca nera o a bacca bianca?) degustazione ad etichetta coperta (indovinare il vitigno è una chimera, ma compilare una scheda di analisi sensoriale degna di questo nome è alla portata dell’allievo generico medio) e valutazione finale. C’è stata anche la scheda con i feedback da consegnare: poche indicazioni, il corso è piaciuto a me come a molti altri, forse a tutti, e la migliore gratificazione per i maestri sommelier è scoprire che la principale preoccupazione è sapere dove e quando si potrà passare al secondo livello. Per proseguire l’annuncio al mondo dell’esistenza del cardamomo. . Alessandro Riccini Accademico sommelier Epulae