Organo Ufficiale dell'Accademia Internazionale Epulae
Direttore Responsabile
Angelo Concas
31/10/2007
La media valle del Tirso, costituita a sinistra dal Barigadu Susu e a destra dall’altopiano di Abbasanta è costellata da innumerevoli chiesette campestri tutte intitolate a santi bizantini. Sono generalmente piccoli e medi edifici chiesastici ricostruiti intorno alla metà del 1600 in stile cosiddetto gotico aragonese su precedenti impianti di culto bizantino. Esse si affacciano tutte sulla splendida conca del grande lago Omodeo e da ognuna di esse si scorgono generalmente le altre, offrendo, insieme ai rispettivi paesi di appartenenza, uno scenario di forte spettacolarità. Sulla sponda destra troviamo: San Serafino, San Giovanni e San Michele in territorio di Ghilarza, San Salvatore a Boroneddu, San Michele a Tadasuni, Santa Maria a Soddì, Santa Greca ad Aidomaggiore e San Costantino a Sedilo; mentre sulla sponda sinistra San Basilio a Nughedu Santa Vittoria, Santa Maria di Turrana e San Nicolò a Sorradile, santa Maria di Ossolo a Bidonì, San Quirico e i Santi Cosimo e Damiano ad Ardauli, s’Anzelu (San Michele) a Neoneli e Santa Susanna a Busachi. Intorno ad ognuna di queste chiesette sopravvivono ancora antiche e modeste casupole, chiamate muristenes, destinate ad ospitare i devoti durante i novenari. Per nove notti consecutive la popolazione esprime, in una sorta di ritiro spirituale, la propria devozione al santo. Oltre alle devozioni religiose che vengono espletate all’alba e poco prima del tramonto per lasciare il resto della giornata alle occupazioni lavorative, tutte le notti vengono allietate da canti e balli cui partecipa, oltre ai novenanti, anche altra parte della popolazione che dopo cena si reca al novenario per tenere compagnia ai devoti. Intorno al San Serafino di Ghilarza si è sviluppato col tempo un vero e proprio villaggio temporaneo che rappresenta uno dei più vasti impianti abitativi devozionali di tutta la Sardegna. La pratica delle novene si perde nella notte dei tempi e risale all’arrivo in Sardegna, nella seconda metà del primo millennio, dei monaci bizantini che abbandonarono i loro luoghi di origine in seguito alle persecuzioni di Leone Isaurico che, influenzato dalla cultura islamica, proibì il culto delle immagini sacre. Le nove notti di raccoglimento spirituale rappresentavano inizialmente una sorta di scolarizzazione del culto dei nuovi santi portati dai monaci nell’isola, per poi trasformarsi in un perenne culto devozionale, arrivato fino ai nostri giorni praticamente intatto. In periodo giudicale, agli inizi del secondo millennio, questi incontri religiosi si adattarono alle esigenze agricole, diventando anche luogo di ritrovo degli agricoltori che avevano necessità di incontrarsi per programmare le loro attività lavorative. Durante le novene si stipulavano gli accordi di lavoro per le imminenti vendemmie. La maggior parte dei novenari si trova infatti inserito in territori un tempo abibiti ad una intensa coltura viticola. Nell’architrave della porta laterale del San Serafino di Ghilarza viene riportata una scena ambientata in periodo giudicale in cui si nota un personaggio di alto rango che offre un grappolo d’uva al Santo; il baldacchino per il trasporto processionale del San Basilio di Nughedu porta ancora le colonne ornate con tralci di vite, mentre ad Ardauli, nei terreni circostanti la chiesa di San Quirico sono ancora presenti numerosissime vigne già documentate in atti notarili di compravendita di metà Seicento. Il periodo delle novene viene aperto dalla comunità di Ardauli già dal giorno successivo al Ferragosto, dal 16 al 24, col novenario di San Quirico. Seguono quindi, senza interruzione, Santa Maria di Turrana, San Basilio, San Nicolò etc.. Il novenario di San Quirico è ubicato a circa cinque chilometri dall’abitato di Ardauli, incastonato tra i vigneti del declivio collinare che si adagia tra il paese ed il lago del Tirso, lungo la strada provinciale che da Neoneli porta a Ghilarza e che poco prima di quest’ultimo si raccorda al Km 4,5 della superstrada Abbasanta-Nuoro. Esso è costituito, oltre che dalla chiesa, da otto muristenes, modeste casupole unicellulari edificate con muratura in trachite, che hanno il compito di ricovero dei novenanti durante la notte. Un vasto spiazzo a ridosso della parte posteriore della chiesa, recentemente modernizzato con pavimentazione in lastroni e dotato di un un emiciclo gradonato, è da sempre adibito ai balli. Il luogo è provvisto di una fonte perenne alla quale è stata addossata una vasca per il recupero dell’acqua necessaria per l’abbeveraggio degli animali domestici impiegati nella coltivazione delle vigne. Lo svolgimento della novena ha tempi e modi programmati ab antiquo, i cui giorni principali sono da identificarsi nel quinto e nell’ultimo giorno. Il quinto, anzi la quinta notte, che cade sempre il 20 agosto, è abitualmente chiamata sa notte de sa chena, la notte della cena. Dopo le funzioni religiose del tramonto i novenanti danno vita ad una cena comune alla quale partecipano anche amici e parenti non direttamente partecipanti alle novene. L’ultima notte, sa notte de s’izzadorzu, ossia la notte della veglia, che cade sempre il 24 agosto, è dedicata a balli e canti che durano fino all’alba del giorno successivo. Da qualche anno le due manifestazioni sono state unificate e si svolgono ambedue durante l’ultima notte. Alla manifestazione è stata inoltre accomunata la presentazione di una pubblicazione sul paese. Il programma incomincia alle ore diciotto con la celebrazione dell’ultima novena alla quale partecipa anche gran parte della popolazione che in genere, per devozione, arriva a piedi (sos andantìles) lungo l’antica strada reale che da Ardauli portava a Tadasuni. Subito dopo avviene la presentazione e discussione del libro di cui annualmente il Comune promuove la pubblicazione. Si tratta in genere di monografie specifiche sulle peculiarità storiche, artistiche e culturali del villaggio. Intorno alle venti inizia la cena collettiva in cui la popolazione esprime tutta la sua capacità organizzativa e di socializzazione. Durante tutta la giornata, le donne del villaggio, parenti ed amiche dei novenanti si riuniscono a gruppi e si industriano nella preparazione dei ravioli. I ravioli classici ardaulesi sono costituiti da una sfoglia di pasta composta solo da semola ed acqua che racchiude un impasto di patate lesse, strutto, pecorino stagionato ed un trito di nebidedda. Attualmente si tende ad eliminare lo strutto ed a sostituirlo con olio d’oliva per rendere il prodotto più “leggero”; la nebidedda (nepeta nepetella) viene generalmente sostituita con la maggiorana che ha un sapore simile perchè è di più facile reperimento. Vengono conditi con un sugo di pomodoro semplice (senza aggiunta di carni o erbe aromatiche) e con pecorino stagionato. L’operositià delle donne riesce a produrre ravioli sufficienti a “sfamare” (anche se ormai non si arriva mai ad una cena sociale “morti di fame”) dalle sette alle ottocento persone. Dalle venti alle ventidue tutti gli spiazzi intorno alla chiesetta è invaso da innumerevoli tavolate. Dopo i ravioli viene servita, ad anni alterni, carne di pecora bollita o ortau. L’ortau è un prodotto della macellazione del maiale domestico, un tempo caratterisco solo dei mesi invernali quando appunto avveniva la macellazione. Era pressochè comune nella gastronomia sarda ma attualmente la sua produzione ad uso domestico sopravvive solo in ristrettissime zone quali Samugheo e l’Ogliastra. Ad Ardauli è ed è sempre stato un prodotto di qualità a cui pochi sanno rinunciare, tanto che attualmente, data la creazione di numerose piccole porcilaie, viene prodotto quotidianamente in un piccolo laboratorio e può trovarsi disponibile in ogni periodo dell’anno. L’ortau è una sorta di salsicciotto costituito dall’intestino retto del maiale che viene riempito con carni nobili variamente aromatizzate, quindi bollito per circa quindici minuti, lasciato raffreddare nell’acqua di cottura, quindi fatto asciugare ed infine ricotto su graticola, al calore di una tenue brace. Tutta la cena è accompagnata da una notevole quantità di vino che anticamente portava a gloriose sbronze degne di una cena di commiato, ma la consapevolezza odierna porta ad una assunzione più o meno moderata che non trascende quasi mai ma porta all’allegria ed alla socializzazione istintiva che più avanti nella notte si esprimerà in tutta la sua pienezza nei balli. La partecipazione alla cena una volta avveniva nell’ambito ristretto della familiarità e dell’amicizia fra i novenanti e la fatica sociale della preparazione non pretendeva compensi di sorta. Oggi tuttavia la partecipazione è molto sentita anche da persone non direttamente interessate dalla novena e sopratutto gli emigrati, numerossissimi in questo periodo, sentono la necessità di partecipare, se non altro per rivedersi tutti insieme dopo uno o più anni di lontananza. La partecipazione di così tante persone ha portato il comitato di San Quirico a chiedere ai partecipanti un modestissimo obolo, quasi un’elemosina, che a mala pena riesce a coprire le spese per l’acquisto delle materie prime. Durante la cena arriva lentamente la notte ed allora si può ammirare uno spettacolo degno delle migliori scenografie. Ad una ad una si accendono le luci dei villaggi vicini e lontani: Tadasuni, Boroneddu, Ghilarza, Abbasanta, Norbello, Soddì, Zuri, Sedilo e più lontano Noragugume, Dualchi, Bortigali, Birori, Borore, fino ai villaggi della Costera, Macomer, Silanus, Bolotana Lei ..., dando al novenario un fondale spettacolare trapunto di luci che si riflettono nelle acque del lago. Dopo la cena inizia la grande notte dei balli che si protrarranno ininterrottamente fino all’alba. Essa è dedicata esclusivamente ai balli sardi, al suono pressochè ininterrotto dell’organetto che interpreta tutte le sue varietà. Ballo caratteristico, Ardaulese è sa danza, grande ballo corale riservato a tutti gli intervenuti: maschi e femmine, bambini, giovani ed anziani, che può protrarsi per lungo tempo e dove i partecipanti possono entrare ed uscire a piacimento. I partecipanti si tengono uniti per mano, con le braccia tese, a formare un grande cerchio o più cerchi concentrici. E’ il ballo di pace e concordia per eccellenza in cui le braccia tese dei partecipanti e l’unione corale rappresenta l’abbandono, almeno per un momento del dissidio più o meno accentuato che può verificarsi fra gli abitanti di un piccolo villaggio. Attualmente ad Ardauli si è formato un gruppo di ballo che incomincia a far conoscere sa danza anche al di fuori del villaggio. La grande notte dei balli si spegne lentamente alle prime luci dell’alba. Per gli ardaulesi la grande veglia è finita, ma già dalla prossima notte un altro villaggio incomincerà le sue novene ed avrà un’altra notte della cena ed un’altra notte di veglia, ininterrottamente, fino a metà ottobre. Battista Urru