Saperi e sapori

L'etichetta d'artista

di Claudio Marani

28/04/2014

A seguito dell'invenzione della litografia ed in particolare per l'applicazione voluta dallo svizzero Henri-Marc, proprietario della maison Venoge, nel 1840 viene proposta la prima etichetta illustrata moderna ma è innegabile che al barone Philippe de Rothschild e al suo vino Chateau Mouton Rothschild, premier cru del Bordolese, vada attribuito il merito di essere stato il primo esempio a sancire un matrimonio storico e ricco di successi quale il vino e l'etichetta, ovvero non la solita etichetta, la normale e più o meno colorata etichetta-didascalia bensì l'etichetta d'artista, l'etichetta-opera, l'etichetta-quadro, sancendo così per la prima volta ed in maniera ufficiale che era possibile immaginare una diversa funzione per quel piccolo talloncino incollato sul vetro della bottiglia che, invece di limitarsi a descrivere il contenuto, fa molto di più: lo interpreta. E come fa ad interpretarlo? Semplicemente lasciando fare l'immagine dell'etichetta a coloro i quali da sempre si occupano d’immagini ovvero gli artisti. La storia delle etichette Rothschild inizia quindi nel 1924 con quella commissionata a Jean Carlu per poi passare, dopo un periodo di pausa, nel corso degli anni a Picasso, Braque, Chagall, Mirò, Bacon e Wharol, per poi arrivare sino ai contemporanei come Jeff Koons o Anish Kapoor.

Probabilmente la scelta di affidare l'etichetta agli artisti fu dettata da due fattori: innanzitutto dalla natura stessa del personaggio nella sua volontà e capacita di mecenatismo, e poi, ma non certo secondariamente, da una lucida e preveggente capacità di “marketing”. La scelta dell'artista come autore dell'etichetta è intesa sicuramente ad aggiungere valore a valore, ad ammantare di corpo e forma sacrale il vino, rendendo in questo modo visiva e visibile la sua già millenaria e antropologica “sacralità” ma poi anche a rendere sfolgorante e persistente nel tempo un prodotto destinato al consumo e quindi, di per sé, effimero. Come a dire: io, in quanto vino, sarò bevuto e finisco così il mio ciclo di vita ma in quanto a prodotto culturale resto, eccome se resto, ed ecco qui l'effige del grande artista a testimoniarlo ed a sottoscriverlo.

Ma a questo va aggiunto infine un altro non secondario aspetto, che poi in alcuni casi ha dato luogo a risposte sorprendenti degne di ulteriori approfondimenti; fondamentalmente si tratta di questo e cioè che nell'era della “riproducibilità tecnica” teorizzata da Walter Benjamin1, in pieno trionfo industriale applicato al vino, che invero nasce al contrario come un “assoluto capolavoro” della produzione contadina ed agricola addirittura preistorica ancor prima che preindustriale, l'ossessivo replicarsi del contenitore-bottiglia sempre uguale a se stesso e sempre banalmente didascalico sembra svilire, agli occhi di uno così avveduto come il barone Rothschild il prodotto stesso che contiene; in poche parole: “che cosa l'ho fatto a fare un vino così prezioso se sullo scaffale del rivenditore nulla del suo contenitore rende evidente e persino sfolgorante che il mio vino è assolutamente migliore degli altri, senza neppure bisogno di assaggiarlo e senza neppure una degustazione?”. La soluzione di questo lungo processo culturale trovata dalla sapienza personale di questo imprenditore fu quella di dare attraverso l'immagine una nuova forma per avere un nuovo contenitore. Questa operazione in effetti è anche un’operazione di “personalizzazione“ del prodotto, un modo di distinguerlo e un modo anche per “far distinguere” colui che lo acquista, il cliente finale. In fondo questo desiderio di personalizzazione è anche un’esigenza di “distinzione “ già presentissimo fin dalle tavole e dai banchetti romani. Il vino dell'antica Roma giungeva da ogni dove e veniva riposto e conservato sempre negli stessi anonimi contenitori ovvero le anfore vinarie; leggermente diverse per forma o per colore o per dimensioni a seconda della logistica che il trasporto o lo stoccaggio prevedeva ma comunque tutte inesorabilmente anonime.

1W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, 1966 Giulio Einaudi Editore.

Ma ecco che una volta acquistato il vino dalla famiglia e stipato in casa, portandolo al banchetto la banale anfora vinaria improvvisamente spariva per essere sostituita dal vasellame più o meno straordinario e dalle ricchissime coppe decorate da pittori greci e romani patrimonio della famiglia gentilizia ospitante. Era a questo punto e cioè sulla tavola che per i Romani la forma, ovvero l'immagine, aggiungeva valore al contenuto e quindi nell'atto stesso del banchetto veniva celebrato il matrimonio dell'arte e del vino, sotto l'egida e la benedizione del capo famiglia, nella celebrazione del proprio nome. Quindi si potrebbe dire che il barone Rothschild riallaccia un legame che nella storia, fatte le dovute distinzioni, c'era gia stato addirittura 2.000 anni prima! Semplicemente, essendo ormai inseriti la coltivazione, la produzione e la distribuzione del vino all'interno di un processo industriale, lui sposta l'intervento dell'arte dall' aristocrazia dell'antica famiglia romana alla trionfante e diffusa classe borghese novecentista più ricca, che acquistando il suo vino, acquista altresì anche la propria celebrazione estetica; e sulla tavola avremo Dalì, oppure Picasso, su fino a Warhol.

E sicuramente non è un caso che proprio quest’ultimo come artista abbia fatto il processo al contrario, portando l'etichetta del prodotto industriale sul quadro, chiudendo così il cerchio tra la nuova classe egemone, i prodotti del lavoro e la sua nuova estetica modernista, diffusa attraverso l'estetica di uno tra i suoi maggiori prodotti di eccellenza.

 

 

  • immagini
  • immagini
  • immagini
  • immagini
  • immagini