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Castel di Lucio: un presepe di murriti (caci figurati), che sa di provola fresca, di Mario Liberto – foto di Pippo Nobile
09/01/2017
Tra le iniziative del santo Natale siciliano del 2016, risulta degna di attenzione il presepe allestito a Castel di Lucio (ME) dall’Amministrazione comunale, insieme ai ragazzi dell’Azione Cattolica e dagli artisti casari locali.
La singolarità di questa Natività è determinata dalla presenza dei personaggi, circa un centinaio, realizzati interamente di formaggio a pasta filata, una tecnica casearia adottata nel meridione d’Italia che attraverso la lavorazione della cagliata matura con acqua bollente riduce la caseina in fili sottilissimi e lunghissimi, insomma un autentico capolavoro.
Il merito di questo singolare opera, va riconosciuto ai maestri casari castelluccesi che in pochi giorni hanno saputo allestire una Natività che è forse l’unica al mondo, e per il prossimo anno è consigliabile porla all’attenzione dell’organizzazione internazionale dei “Guinness dei primati”.
Gesù, Maria, Giuseppe, il bue e l’asinello, i Re Magi, la stella cometa, i pastori e tanti altri figure immancabili del presepe (da fare invidia a quelli napoletani di Via San Gregorio Armeno), tanto cari alla sensibilità di grandi e piccini, realizzati minuziosamente in tutti i particolari. C’è di più, il presepe di Castel di Lucio è ambientato sulla ricostruzione di gran parte delle contrade del territorio: Birione, S. Antonio, ecc. insomma, una realizzazione minuziosa che fa sentire l’evento religioso vicinissimo alla comunità castellucese.
Questa artisticità è legata alla capacità creativa e alla scuola dei casari, la cui abilità contrastava, con le dovute proporzioni, quella dei più abili intagliatori siciliani del Cinquecento. Le loro opere artistiche, nascevano, forse, per allietare i propri figli o quelli del “massaro”. Artisticità che si apprende e si tramanda da padre in figlio, attraverso quella scuola che in Sicilia è detta “talia e ‘n signati”, cioè, imparare guardando. Nascono così degli abili artisti che nel corso delle feste comandate si contendevano il primato di “u megghiu” il più bravo attraverso capolavori d’arte effimera.
Le loro creatività, nei vari territori siciliani, assumono nomi differenti, “inuzzi”, “cavadduzzi”, “palummeddi” “aineddi”, a Castel di Lucio li chiamano “murriti”, a detta del Traina deriverebbero dal verbo “murritiari”, “far qualcosa per non restare ad oziare”.
Qualunque sia l’origine del nome, si tratta sempre di Caci Figurati, riconosciuto come prodotto storico fabbricato tradizionalmente che, con Decreto del 28 dicembre 1998 dell'Assessorato dell'agricoltura e delle foreste della regione Sicilia, è stato inserito nella settima revisione dell'elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali costituito del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali ai sensi del D.M n° 350/1999 (aggiornamento del 19/06/07).
Un’arte che non sfuggì a Salvatore Salomone Marino che riportata sapientemente nel suo volume: “Costumi ed usanze dei contadini in Sicilia”. Lo studioso di Borgetto, evidenziava una serie di attività che i contadini, parallelamente alla produzione agricola, svolgevano: “Dirò invece cosa che a pochissimi è nota ed a questi stessi non abbastanza, cioè: come i contadini coltivino con pari abilità e spontaneità le arti belle propriamente dette, e come, senza aver mai conosciuti maestri e scuole, sappiano produrre, con mezzi affatto preadamitici, delle opere artistiche che fanno rimaner a bocca aperta e quasi umiliati i più abili e provetti artisti”.
Qualche decennio prima Giuseppe Pitrè alla fine del XIX secolo, riportava altre figure professionali che oggi sono state ribattezzate “connesse” tra queste l’erbaiolo, «irvaloru», che affiancavano medici e farmacisti nella cura delle popolazioni attraverso la raccolta e la preparazione di queste eccellenti cure naturali.
Tutte funzioni connesse alla pratica dell'agricoltura che i contadini dell'intero territorio nazionale, si sono fatti carico nel corso dei secoli, senza trarne alcun profitto:
gratis et amore Dei, e oggi, ribattezzati dalla Comunità europea come “Agricoltori custodi”
.
Abilmente i due studiosi riportano alla storia il
vistiamaru, cioè l’intagliatore, lo scultore, l'incisore, arte di cui erano dotati molti contadini ma anche diversi pastori; i
burdunari o mulattieri cioè coloro che “confezionano gualdrappe, bisacce, groppiere, testiere e pettorali per i loro muli componendo con panno intagliato e velluto e seta a vivaci colori i più diversi e attraenti arabeschi intramezzati ad animali vari, risultandone così il più splendido e singolare lavoro d'insieme che immaginar si possa in genere a fornimenti”. Oltre ad altre attività c’erano i
curatoli, ossia “i curatori della mandria ai quali era affidata la manifattura dei caci, capaci anche, con la pasta del caciocavallo, realizzare dei piccoli daini, cavallucci, capre, uccelli, cani, buoi e altri animali”, di cui lo storico e saggista Pippo Oddo, dice che: “si tratta di cocci di cultura ritrovata”.
E’ doveroso anche ricordare il grande avvenimento planetario: l'Esposizione Nazionale di Palermo, inaugurata solennemente il 15 novembre 1891 dal re Umberto I e dalla regina Margherita, accompagnati dal capo del Governo, marchese di Rudinì, dal ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio, Bruno Chimirri, e dal presidente della Camera, Giuseppe Marcora, la cui ambientazione fu progettata ed eseguita dall'architetto Ernesto Basile nello spiazzo, “allora sgombro di palazzi”, dell'attuale piazza Sant'Oliva. Tra gli spazi espositivi della rassegna palermitana non si rilevò privo d'interesse quello riservato alla Mostra Etnografica Siciliana, ordinata dal medico palermitano Giuseppe Pitrè, il più autorevole studioso italiano del folklore e delle tradizioni del popolo. E facile immaginare “quale significato acquistasse l'esposizione di quella notevole quantità di oggetti, pazientemente raccolti e disposti nell'ordine più opportuno, per far conoscere ai visitatori "le vere forme e manifestazioni - come scrisse lo stesso Pitrè nel catalogo da lui preparato - della vita materiale e morale, pubblica e privata dei Siciliani": cosa che acquistava maggiore rilievo anche per il momento in cui la mostra si svolgeva, riferendosi quegli oggetti in particolare alla vita dei contadini nei comuni rurali allora già entrati qua e là in agitazione”.
Fu quella “Mostra etnografica siciliana” di Palermo nel 1892 che permise di fare l’ingresso ufficiale dell’ antica usanza di produrre caci figurati. Poca rilevanza ha se i caci provenivano dalla nobile terra di Contessa Entellina, l’importante che per la prima volta fu riconosciuta la preziosità dell’arte dei casari.
I caci figurati vengono anche descritti dallo storico Antonino Uccello nel suo libro “Bovari, pecorari e curatuli” nel quale ha personalmente raccolto testimonianze di vecchi casari sul mantenimento delle antiche tecniche di produzione di questi formaggi.
“Inuzzi”, “cavadduzzi”, “palummeddi” , “aineddi” “murriti”, rappresentazioni artistiche che i devoti appendono ancora oggi ai fercoli dei propri santi protettori, beni che non sono solo alimentari, ma che erano e continuano ad essere, anche autentici capolavori d'arte plastica effimera, adesso degni di essere usati come soprammobili e un tempo come preziosi talismani, capaci di consentire alla povera gente di affrontare “in regime protetto” (Pippo Oddo), come soleva dire Ernesto De Martino, “la presenza del negativo nella storia” .
Per i più curiosi, va detto che le tecniche di lavorazione dei caci figurati seguono lo stesso processo di caseificazione della provola dei Nebrodi e del Palermitano, ma ovviamente si differiscono dopo la fase di filatura, dove il casaro-artista si dedica alla definizione delle diverse figure di pasta casearia; segue poi la salatura e la salamoia satura. La crosta sottile assume il colore giallo paglierino tendente al giallo ambrato, mentre la pasta è bianca tendente al paglierino, con consistenza morbida e compatta. Il sapore è dolce e delicato. Queste formine non più alte di 10 centimetri pesano circa 0,5 Kg. Hanno soprattutto un valore di rappresentanza folkloristica in quanto possono essere dei doni speciali in altrettanti momenti.
I Caci Figurati hanno un valore artistico, vengono offerti come doni speciali e usati come soprammobili. Il latte utilizzato per questi capolavori è di latte di vacca crudo e intero. Il caglio utilizzato è pasta di agnello e/o capretto. Animali alimentati allo stato brado con una singolarità dovuta all’essenze papulari di montagna davvero singolari.
Tornando al presepe, questi personaggi trasparirono di eleganza e raffinatezza stilistica e costituiscono la forza evocativa di un’identità persa che si vuole a tutti i costi riscoprire, una cultura prepotentemente dissotterrata con una forza evocativa che gli abitanti di questa aria hanno saputo conservare resistendo alle bizzarrie di un clima non certo clemente, ma anche alla voglia di rimanere nei luoghi dei loro avi, e solo per questo vanno lodati e rispettati.
Per l’assessore all’agricoltura Soccorso Stimolo il presepe di Castel di Lucio rappresenta “Un modo affascinante e fantasioso per promuovere il prodotto simbolo di Castel di Lucio: la provola che rappresenta il valore dei tradizionali metodi artigianali portati ad un livello d’eccellenza da secoli di collaudata ed immutata esperienza; serve inoltre per promuovere il territorio, la sua cultura, il sapere e gli altri prodotti agroalimentari. L’appuntamento è per la prossima estate per la XXV sagra del caciocavallo prodotto bandiera dell’intera comunità, che consente di conoscere un territorio pieno di storia, cultura e tradizione”.