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CIBO FLESSIBILE: MANGIARE NELL’EPOCA DELLA CRISI GLOBALE.

di Andrea Contu

02/07/2008

IL CASO DEL ROMANZO “MI FIDO DI TE” Viviamo tempi di flessibilità spinta e di destrutturazione esistenziale profonda. Siamo flessibili, stanchi, ammalati, stressati, impoveriti, prima ancora che nel portafogli, nel praticare e vivere la nostra dimensione culturale sia essa materiale o immateriale. E se il cibo, il mangiare e il produrre cibo, sono cultura, più duramente siamo colpiti proprio nel luogo che la tradizione italiana vuole come l’approdo sereno di ogni giornata, il meeting point sociale per eccellenza: il convivio, la tavola, perfino nella sua versione “calda”, frenetica pausa pranzo nel tempo che intercorre tra la mattina e il pomeriggio. E se il rapporto tra ciò che mangiamo e ciò che siamo in termini di salute fisica e mentale è così stretto come tutti vanno ripetendo da un trentennio,ovvero da quando abbiamo iniziato a mangiare globalizzati e massificati, capiamo di essere finiti veramente nei guai. La misura di questo disastro, sottovalutato e poco conosciuto nei suoi meccanismi, ma nel quale siamo immersi fino all’attaccatura dei capelli, ce la danno due scrittori, Francesco Abate e Massimo Carlotto, nel romanzo “Mi fido di Te” pubblicato nel 2007 per Einaudi. La storia: Gigi Vianello, opportunista e spietato affarista con un passato da pusher, giunge dal Veneto in Sardegna per buttarsi nel business della distribuzione di cibi sofisticati, ovvero di cibi scadenti ma manipolati e adulterati quel tanto che basta per renderli commestibili, appetibili e commerciabili, usando un ristorante di altissimo livello come copertura. Gigi Vianello segue la scia della crisi economica, il ceto medio che si impoverisce, sfrutta la congiuntura favorevole, la busta paga che non basta più, per riuscire a far viaggiare i suoi prodotti, piccole cariche esplosive piazzate sulla via dell’uomo moderno, disattento, ammaestrato, affamato, plagiato, bisognoso. Sfrutta l’incoscienza e l’ignoranza di massa. Ma ancora non basta a realizzare un successo economico. Serve un gusto costruito al ribasso in anni di cibo massificato, ingurgitare sempre di più e sempre cibi di livello più basso: il palato prima o poi si abitua ed è incapace di distinguere il buono dal cattivo, il fresco dal conservato, il conservato dall’avariato, il bene dal male. I due autori, divertiti, hanno detto di essere stati contattati più volte per rendere edotte platee di tecnici e curiosi sul tema della sofisticazione alimentare. Le informazioni che hanno utilizzato per la stesura del libro in realtà non sono state scoperte dentro un cassetto chiuso a chiave o dentro la cassaforte di qualche azienda e non sono il frutto di un accurato spionaggio industriale. Gli elenchi delle società accusate di trafficare pesantemente con la sofisticazione alimentare, ad esempio, sono pubblici e si trovano su internet, oppure sono presenti negli opuscoli che le organizzazioni a sostegno di uno sviluppo sostenibile pubblicano ad uso dei consumatori. Ma siamo precari, viviamo un’esistenza incerta e traballante, priva di punti di riferimento: non sappiamo più a cosa e a chi credere, utilizziamo la rete ma ci perdiamo. Così restiamo soli, in balia del mare magnum del consumismo moderno. Mangiamo ma non assaporiamo più nulla, abbiamo perso la fiducia. Ci ricordiamo di quanto fossero saporiti i pomodori che coltivava nostro nonno, ma restiamo costretti, coatti del consumo di massa. Sarebbe ora di fermarsi, scendere dal treno in corsa e riprendersi la terra con i suoi profumi, riprendere a produrre e vivere il cibo per quello che è: una delle più importanti esperienze culturali che l’uomo abbia mai vissuto da quando ha messo piede sulla terra. E soprattutto dobbiamo rivendicare il nostro diritto a mangiare sano indipendentemente dalle nostre possibilità economiche. Dobbiamo informarci e formarci, bisogna uscirne. Autoproduzione, formazione, conoscenza, consumo critico non sono più vuoti slogan ma un’esigenza, un bisogno essenziale per andare avanti.

Andrea Contu