Organo Ufficiale dell'Accademia Internazionale Epulae
Direttore Responsabile
Angelo Concas
09/02/2009
Venerdì sera, un bel ristorante, menù semplice e genuino per accompagnare la degustazione dei vini di una bella azienda piemontese. Lavoro in sala per servire i vini e presentare l'Azienda, è la prima volta in questo ristorante. Ai tavoli una cinquantina di persone (il ristorante è quasi pieno) in grande maggioranza persone giovani, come i proprietari del ristorante e lo chef.
La serata è stata divertente: i vini davvero buoni e la clientela discretamente interessata (anche se la bellissima parodia del sommelier in stile Antonio Albanese andava per la maggiore...). Occasione piacevole e di buona soddisfazione professionale.
Una cosa, però, mi ha colpito. Più volte parte della sala si è svuotata: tutti fuori per una sigaretta.
Mi era capitato in altre occasioni, anche uscendo in compagnia di amici ed è una cosa che gradisco poco, ma questa volta ho provato ha riflettere sul significato del gesto in se stesso, al di là del fatto che ciò che è accaduto in occasione di quest'ultima serata non è assolutamente straordinario, ma credo sia ciò che può accadere praticamente ovunque dal momento in cui è stata varata la “benedetta” Legge sul divieto di fumo nei locali pubblici.
Non intendo, dunque, indagare sulle buone ragioni che ciascuno dei commensali può avere ed esprimere con il desiderio di fumarsi una sigaretta. Ma vorrei soffermarmi un momento a riflettere su ciò che questo fatto esprime nel rapporto tra le persone ed il cibo.
Una prima considerazione: il fumo “ammazza” le papille gustative e, dunque, cancella i sapori già gustati e impedisce di percepire con correttezza e pienezza i successivi. Che senso “positivo” può avere fumare una sigaretta in relazione alla percezione gustativa? Se vado ad un ristorante per godere i sapori della cucina serve a qualcosa? No, cancella immediatamente ciò che ho sentito e lo rende identico a ciò che gusterò dopo. Nulla da dire, invece, se l'obiettivo del mangiare è esclusivamente la nutrizione, senza alcun significato ulteriore. Ma penso che, in questo caso, una persona si perde una buona fetta del piacere di mangiare e di bere.
In secondo luogo l'uscita dal locale ripetuta in più occasioni, tra una portata e l'altra, porta una interruzione: dei discorsi con i commensali, ma anche della prossimità fisica; della compagnia dei sapori e delle luci della sala; della temperatura. Senza contare l'interruzione del servizio con cuoco e camerieri (e sommelier...) che si trovano a dover “inseguire” i tempi dei clienti. E la cena, con il suo significato di degustazione, non è più un “evento”, ma sembra trasformarsi in una attività tra le altre: o, meglio, una serie di attività che si susseguono l'una all'altra e perdono il loro significato unitario.
Infine, la questione del tempo. Il ripetuto alzarsi da tavola mi appare come una insostenibile esigenza di spezzare i tempi distesi (non necessariamente lunghi) richiesti dal pasto, almeno ogni tanto.
Immagino un cartello: “Invito ai piaceri. In questo locale è sconsigliato allontanarsi dal tavolo e dalla cena per recarsi a fumare”.
Ciascuno deve essere naturalmente libero di potersi godere la vita come vuole, anche fumando come e dove preferisce. Ma il ristoratore e il sommelier dovrebbero prendersi la libertà di svolgere anche una funzione di educazione del gusto e non di semplice intrattenimento, promuovendo comportamenti “virtuosi”.
Francesco Rovida